Confessioni di un uomo di cera

scritto da innuendi
Scritto Ieri • Pubblicato 9 ore fa • Revisionato 9 ore fa
0 0 0

Autore del testo

Immagine di innuendi
Autore del testo innuendi

Testo: Confessioni di un uomo di cera
di innuendi

Che anima può avere la notte?
Uno jazz intimo e caldo. Uno spazio erogeno fra le mani e la bocca.
Un ciclone lento, languido di gravità, che sposta tutti i sensi in un altro reale.
Sembra quasi materia sospesa, come una galassia liquida che trasuda tra lenzuoli di seta per poi riposare.

Credo che rimarrò qui ad ascoltare quest’acqua che sale come note e mi lascia, a volte, sospeso, altre incantato.
Quell’uomo con la cravatta rossa, seduto di tre quarti, è buffo. Le sue mani picchiano come impazzite sull’avorio bianco e nero in un quattro quarti sincopato.
Il contrabbasso brontola fra sé e sé, strizzando gli occhi alla passione di un tempo.

La sala è quasi vuota.
Le luci, soffuse e disseminate in giro senza un ordine preciso, come le note del jazz che diffondono quel gusto retrò di calze a rete e Jack Daniels.
Ed io me ne sto seduto qui, a questo tavolo a scacchi.
In una mano tengo un bicchiere di Jack Daniels invecchiato, l’altra è avvolta dal fumo di una Camel senza filtro.
Non ricordo più da quanto tempo non fumavo una sigaretta. A casa, quella megera di mia moglie non mi permette di fumare. A pensarci bene, mi ha fatto togliere il vizio anche in ufficio.

Continuo a bere, non lo facevo da secoli, ma questa è una sera speciale.
Stasera voglio uccidermi in silenzio con questo Jack Daniels; voglio che lui senta la disperazione di quest’anima malata di falsa felicità.

Intanto, l’uomo dalla cravatta rossa sta ancora lì al pianoforte, tutto avvolto tra le sue note maledette. Picchia e picchia sui tasti, su scale dissonanti.
Il contrabbasso quasi non riesce a stargli dietro, e un sassofonista, in sintonia col basso fretless, strappa dai tavoli tutto il whisky in attesa di essere ingozzato dagli avventori, caricandosi sulle spalle la malinconia e la tristezza di una New Orleans d’altri tempi.
Sembra lui il disgraziato questa sera.

Il fumo della Camel si sparge sul mio viso disegnando un vizio ancestrale.
La cenere, ancora intatta, raggiunge il limite delle dita.
Lo sento avvolgersi nella bocca ancora aspra del Jack e penso a mia moglie.

Starà a casa a chiedersi come mai ancora non mi faccio vivo.
Io che della puntualità ne ho fatto un dogma di vita, che la mia meticolosità è diventata proverbiale. Le mie abitudini poi... non ne parliamo.
Se decidessero di ammazzarmi, ci vorrebbe così poco.

Marie, moglie di un tempo che fu.
A guardarla bene, una donnina apparentemente insignificante, dal carattere accondiscendente in tutto. Invece, negli anni imparai a stanare l’altra parte di sé: quella cattiva, perfida, quella che ti toglie ogni respiro, che ti spia in ogni cosa che fai, quella che ti urla dietro come un cane che rincorre la sua auto. Un ego smisurato e anche grande manipolatrice.
Penso allo strepito della sua voce così sottile e insinuante, che ti entra dentro come uno stiletto arroventato. Non la sopporto più, ne ho le scatole piene di quella donna... colei che aveva cambiato inesorabilmente la mia vita.

Bob. Questo è il mio nome. Bob Sincle, emerito direttore del più importante museo delle cere della capitale.
E questa sera sto affogando in una bettola di vicolo De’ Cinque, proprio a ridosso di Ponte Sisto, sul Lungotevere.

Quella vita di direttore del museo delle cere non mi va più bene.
Mi ritrovo a parlare solo con Loris, il mio assistente, eccellente artista che dà anima a quelle statue, che con le sue grandi mani le modella come fossero figli propri.
O con le statue stesse, la sera, prima di chiudere, quando mi sentivo ancora più solo, quando ultimavo il giro d’ispezione e mi chiedevo se quelle opere avevano un’anima o no... l’anima.

La donna dal cappello nero e calze a rete andava dietro al basso fretless e io mi misi a piangere.
Forse per quelle note così tirate allo spasimo o per quella voce calda, impastata di note e notte fonda.
Ma era la mia fuga quella.
E nessuno poteva togliermela.

Dicono che sono un uomo tutto d’un pezzo.
Mi offrirono il posto di direttore del museo dopo essere stato per parecchi anni assistente e vittima del dottor Lacombe a Londra, presso il British Museum; emerito studioso di Egittologia e tecniche di imbalsamazione di cadaveri.
Lacombe, che personaggio. Aveva la fissa degli antichi Egizi e mi faceva trascorrere intere giornate chiuso in laboratorio tra balsami, resine aromatiche, carbonato decaidrato e manoscritti lasciati da Alfredo Salafia: un imbalsamatore italiano vissuto a metà del secolo scorso, che mise a punto un metodo di conservazione della materia organica basato sull’iniezione di sostanze chimiche.

Ma stasera sono qui.
Tra note jazz, Camel e Jack Daniels invecchiato, a rivedere la mia vita e a tutto ciò che questo silenzio non mi dice ancora.
Inalo prepotentemente l’ultimo respiro di sigaretta e penso a quella donna e all’oscurità intorno al suo viso, sdraiata sulla fredda terra, al suo dimenarsi senza sosta, ad assaporare quel lento silenzio dove distruggo tutti i miei peccati, al suo ultimo alito di vita verso il mio... il mio primo omicidio.

Il Jack Daniels scese come acido, gelando anziché scaldare.
Il fumo della Camel si sparse nell’aria, un velo di nebbia tra me e il pianista dalla cravatta rossa.
Bob aveva detto: mio primo omicidio.
L’aveva pensato.
O l’aveva fatto?

Sollevò la mano sinistra. Tremava.
Non per l’alcool, non per il freddo, ma per il ricordo di quel silenzio.
Non il silenzio ovattato del locale, ma quello assoluto, pesante, seguito al rumore, quel rumore.
La donna. Marie.

Era stato l’unico modo per avere indietro il vizio del fumo, l’unica via per riprendersi il Jack Daniels, l’unica fuga che contasse.
Lei giaceva nella terra fredda, la terra fresca del giardino dietro il magazzino, così vicina al mausoleo di cera, così familiare al direttore che aveva studiato l’imbalsamazione.
Un’ironia degna di Lacombe.
La purificazione della materia organica, in fondo, era un’arte.

Le sue mani, quelle che avevano modellato documenti e stretto mani importanti, ora non potevano smettere di toccare il bicchiere.
L’aveva fatto con la meticolosità proverbiale che Marie odiava e rispettava.

Ogni passo calcolato. L'assenza notturna, il Jack Daniels, la sigaretta: l’esatto contrario delle sue abitudini.
Nessuno avrebbe mai creduto che Bob Sincle, il dogma della puntualità, fosse scomparso per un vizio così banale, così umano.
Un alibi costruito su una menzogna di piacere.

Il pianista smise. Il sincopato si spezzò.
Solo il contrabbasso continuò un ultimo lamento sordo, come un cuore che rifiuta di fermarsi.
Il rumore delle sedie che venivano trascinate gli perforò il cervello: il suono della fine della musica, il suono della fine della notte.

Un cameriere con un grembiule macchiato si avvicinò al tavolo a scacchi.
«Scusi, signore. Stiamo chiudendo.»
Bob lo fissò.
La cravatta rossa sbiadita del cameriere sembrava una vecchia ferita.
«Sì,» mormorò. «Chiudete pure.»

Lasciò la sigaretta quasi intatta nel posacenere e il bicchiere a metà, pagando con una banconota spiegazzata.
Si alzò.

L’aria del Lungotevere, umida e fredda, lo colpì in faccia come uno schiaffo.
Non era più una fuga. Era un ritorno.

Bob Sincle, direttore emerito, l’uomo tutto d’un pezzo, si avviò a piedi verso Ponte Sisto, sentendo il peso non del corpo, ma dell’anima che non aveva più.
L’anima era rimasta in quel lento silenzio sulla fredda terra.
Lui era rimasto solo con la notte.

Passò Ponte Sisto.
Sotto, il Tevere scorreva indifferente, un nastro scuro che inghiottiva la luce fioca dei lampioni.
Non sentiva più il Jack Daniels, non sentiva il fumo.
Sentiva solo il vuoto.

L’aveva pianificata come una fuga, ma la fuga non aveva portato alla libertà, solo a una dimensione senza eco.
La musica si era spenta, il calore intimo della bettola era evaporato, lasciando al suo posto il gelo e l’odore salmastro del fiume.

Bob Sincle aveva creduto che il gesto estremo potesse restituirgli l’anima, strappandola al gioco di Marie.
Invece aveva solo trasferito se stesso dal carcere della moglie alla prigione di un segreto inamovibile.
Guardò il suo riflesso tremolante sulla superficie del fiume: l’uomo con la cravatta, il direttore, l’ex allievo di Lacombe.
Sembrava una di quelle figure di cera che Loris, il suo assistente, modellava con tanta cura.
Perfetta, ineccepibile.
Ma dentro, una cavità riempita solo di balsami e resine aromatiche.

Si rese conto che era lui, ora, la materia inanimata che vagava alla ricerca di un senso.
Si era liberato di Marie, la donna che gli toglieva il respiro, ma la sua stessa vita si era trasformata in un’estensione del museo.
Un’esistenza imbalsamata, conservata con una tecnica meticolosa e gelida, destinata a stare immobile, a non respirare più, ad attendere solo la polvere del tempo.

Non erano le statue a mancare di un’anima.

Bob continuò a camminare.
L’eco del basso fretless si trasformò nel battito sordo del suo cuore.
Il vento freddo di Roma sferzava il Lungotevere, ma non riusciva a spegnere il suo vizio più grande, l’unico rimasto.

Non il Jack Daniels, non la Camel.
Il vizio dell’immobilità perfetta: la cera dell’anima.

2008 - 2025

Confessioni di un uomo di cera testo di innuendi
3